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MUSIC FOR THE DIVINE

Glenn Hughes ci ha sempre abituato ad una costante evoluzione del rock. Nello spartiacque che divide i tradizionalisti dagli innovatori, il nostro Zio sembra quasi esserne il padrone, il traghettatore da una sponda all’altra, il Caronte del fiume della musica rock. Spesso oggi si assiste a forzature nel rimanere fedeli a certi tipi di standard, o a forzature opposte nell’inseguire troppo esageratamente la ricerca sonora. Il mercato chiede entrambe le cose per avere una formula vincente, ma a volte le diversità di pubblico che si apprestano ad ascoltare un album sono così forti che trovare un equilibrio per accontentare tutti è quasi impossibile. Ancor più difficile diventa per i gruppi navigati trovare una quadratura del cerchio, che è ovviamente quella di tener contenti vecchi fan e lanciare un prodotto fresco e piacevole anche per i neofiti. Caso eclatante è stato quello dei Metallica che dopo il famoso “Black Album” del 1990 già abbondantemente alleggerito rispetto ai loro precedenti album, sterzarono verso un easy-listening Hard-Country-Blues-Mtv-Rock, quello di “Load” del 1994. Ciò scatenò l’ira dei vecchi fan che apostrofarono come “montati”, “venduti” e “commerciali” il quartetto di Los Angeles, ma proprio i vecchi fan non tenevano conto del fatto che i Metallica di “Master Of Puppets” erano commerciali ugualmente, perché negli anni ’80 il trash era molto più seguito e di moda. Ma “Load” preso a sé non era per niente un cattivo album, anzi. Se fosse stato composto da “Rocco & I Fan dell’Apecar” si sarebbe gridato al capolavoro. E’ sempre così, ragazzi. Succedeva anche ai tempi dei Deep Purple e dei Led Zeppelin, dei Beatles e dei Rolling Stones, di Elvis Presley e Little Richard. Facciamocene una ragione.

Con grande e consolidata maestria Glenn Hughes confeziona dopo appena un anno dal precedente “Soul Mover” un ottimo album fresco e sempre vivo, dal primo all’ultimo brano. Penso sia facile affermare ora che Glenn ha definitivamente costruito la sua macchina, parafrasando l’album che ha dato inizio a questo trend, e cioè “Building The Machine”. Questo nuovo lavoro “Music For The Divine” ci fa scoprire una vena più intimistica di Glenn, che produce un frequente ricorso a chitarre acustiche e arrangiamenti di archi non pomposi ma di grande equilibrio. Anche i testi sono più indirizzati verso una ricerca interiore. Questo forte coinvolgimento è marcato dai frequenti cambi di tempo che avvengono in molti brani, quasi a voler accentuare gli stati d’animo che vengono fuori durante l’ascolto del disco. Chad Smith poi sembra particolarmente amare questo tipo di drumming, ed è il complemento perfetto alla ritmicità delle chitarre suonate in prevalenza dall’inossidabile JJ Marsh, con qualche comparsata del RHCP John Frusciante.


“The Valiant Denial” è un grande brano: una chitarra che sembra una sirena della polizia è solo la prima parte della lunga e affascinante intro, bisognerà infatti aspettare quasi un minuto e mezzo prima che la voce di Glenn faccia il suo ingresso. La cura nei dettagli vocali è ciò che rende lo stile di Glenn unico nel suo genere, i ritornelli con numerose voci che si accavallano e si sfidano. In molti brani c’è un’aria quasi “progressive” con quei momenti in cui sembra che tutto si libri nell’aria in un piacevole vortice di pensieri, sostenuto spesso da un’ottima sezione di archi e dai vocalizzi eterei del Nostro. Uno dei brani più belli dell’album. Credo che il “Coraggioso rinnegamento” a cui fa riferimento il testo sia quello biblico di San Pietro nei confronti di Cristo, (anche perché è rimarcato dalle iniziali in maiuscolo). “Steppin’ On” è più improntato al funky quello preferito da Glenn, con un synth analogico che porta avanti la baracca del tempo, e basso e chitarre all’unisono in un costante martellamento reso regolare dai poderosi colpi di Chad Smith. Anche qui assistiamo ad un improvviso cambio di tempo sull’inciso, che resterà fino alla fine e sembra voler introdurre il prossimo brano, “Monkey Man” che alterna momenti di grande potenza a momenti di grazia. “This House” invece è la prima pausa di riflessione dell’album: chitarre rigorosamente acustiche, le linee melodiche della strofa che ricordano molto Paul McCartney, come anche la progressione del basso e gli staccati degli archi. Bellissimo l’inciso. “You Got Soul” viene prepotentemente introdotta da Chad Smith, e portata avanti con stacchi perentori e ritmici di chitarre con wah e l’acutissima e graffiante voce di Glenn alta fino all’inverosimile, quasi come se i microfoni non siano in grado di contenerla. “Frail” è il secondo momento di riflessione: Glenn introduce questo brano con una profonda chitarra acustica, mantenuto delicato e sospeso grazie agli archi sapientemente arrangiati. Se l’ispirazione è giustificata dal titolo dell’album, allora non è difficile immaginare chi sia la donna “così fragile” a cui si riferisce Glenn nei suoi versi. Con “Black Light” si ritorna all’up-tempo con il solito super-drumming e i riff all’unisono di chitarre e basso. La chitarra acustica non è scomparsa del tutto, ma qui davvero il regista è Chad Smith, dall’inizio alla fine. Un attimo di pausa ed ecco “Nights In White Satin”, cover dei vecchi Moody Blues riarrangiata in stile Trapeze, piacevolmente scarna ed essenziale. In questo brano Glenn sfoggia molta della sua sensibilità e modulabilità vocale, dai falsetti controllati agli acuti che fanno accapponare la pelle. “Too High” è un mid-tempo che inizia con un riff molto orecchiabile e deciso, e cresce fino allo stupendo chorus. Un altro dei brani che preferisco. “This Is How I Feel” è forse la song più strana dell’album, l’irrequietezza della sua struttura è ciò che la contraddistingue: ci sono almeno cinque tempi diversi. Ecco come si sente Glenn: cioè vivere giorno per giorno apprezzando ogni momento positivo che la vita regala, per avere più forza nell’affrontare le difficoltà. Forse l’irregolarità del brano serve proprio a rimarcare le sue parole, fino all’incedere del lento finale in cui ogni musicista è immerso nelle armonie del suo strumento fino a coglierne tutte le più remote vibrazioni. “The Divine” è la degna conclusione di un grande album, è l’anima di Glenn che si manifesta nel soul più puro e semplice. Per me questo è un altro grande, grandissimo brano. Chitarra acustica, Wurlitzer e archi, poi nient’altro. Solo l’incanto della voce di Glenn, tutta da gustare nei suoi meravigliosi colori.

C’è tanta gente che invoca ancora a gran voce il Glenn di “From Now On…”, di “Phenomena”, me compreso. Ma Glenn è fatto così: prendere o lasciare. E ogni giorno lo apprezzo ancora di più. Non si è mai fermato, la sua ricerca musicale va avanti e si evolve album per album. All’inizio ho fatto un lungo preambolo sul “fiume del rock”. Al contrario di Caronte, questo viaggio non conduce all’inferno dantesco: è un percorso dell’anima verso il Divino, a cui Glenn ha sempre attribuito la forza necessaria per fargli superare le peggiori difficoltà. Sicuramente non smetterà mai di rendergli grazie, come ci fa sempre notare nei suoi album. Ma se i risultati sono questi… beh dobbiamo ringraziarlo anche noi.

GIAMPIERO FRULLI

 

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